Secondo l’ultimo rapporto della FAO Lo stato mondiale della pesca e dell’acquacoltura, presentato in apertura della 28° riunione della Commissione pesca e acquicoltura della FAO (COFI), l’acquacoltura produce la metà del pesce che finisce sulle nostre tavole, mentre nel 2002 era meno di un terzo. A fianco di questi dati, il rapporto denuncia che la pesca in mare è oltre la sua resa massima e che continua a crescere inesorabilmente il sovrasfruttamento delle risorse ittiche. La percentuale di cattura a livello mondiale è quadruplicata rispetto agli anni Cinquanta. Il 90% di specie come il tonno rosso, il pesce spada e altre minacciate d’estinzione è scomparso a causa dello sovrasfruttamento. La cattura dei pesci di cui si nutrono i predatori è destinata all’alimentazione umana e un terzo viene utilizzato per produrre oli e farine per l’acquacoltura del salmone e del tonno. Il resto è impiegato per il bestiame e per la produzione di prodotti farmaceutici.
Rimane ancora un mistero se l’incremento dell’acquacoltura possa avere un effetto diretto sull’eccessivo sfruttamento delle catture in mare aperto. Certo è che per allevare i pesci spesso si ricorre a mangimi ricavati dalla cattura in mare aperto di pesci di piccola taglia come le sardine, una delle specie più cacciate, come denuncia un rapporto parallelo redatto da Oceana, la più grande organizzazione internazionale per la salvaguardia degli oceani. Secondo l’organizzazione la pesca eccessiva di acciughe e sgombri ha lasciato senza cibo i predatori naturali come delfini e tonni. Lo sfruttamento di queste specie ittiche è cresciuto nell’ultimo secolo danneggiando la catena alimentare naturale e gli ecosistemi marini.
Inoltre, la forte competizione tra le industrie della pesca sta provocando un enorme spreco di energia: troppi pescherecci in mare si traducono in pochi pesci pescati per ogni litro di benzina consumato. Inoltre vengono acquistate imbarcazioni più potenti, ma più inquinanti e con motori meno efficienti.
Fonte: Modus Vivendi, n°4, aprile 2009.